Twitter, Facebook e YouTube travalicano il proprio ruolo di piattaforme sociali ed applicano la censura secondo i propri criteri personali
In tempi non ancora sospetti come oggi
questo blog pubblicò un articolo dal titolo volutamente
provocatorio: “Google, semplice motore di ricerca o anche strumento della massoneria e dell'Ordine Mondiale?” Era il 6 aprile di questo
stesso anno, nel mondo si combattevano solo le solite guerre di
“routine”, quelle che fanno poca notizia, ma quel post ricevette
lo stesso numerosi commenti tra favorevoli e contrari, soprattutto
contrari in verità, in uno (non si capisce da dove sia giunta
l'intuizione) si muovevano persino accuse di anti-semitismo.
Oggi, i fatti sono cambiati e anche
molto rapidamente: crisi ucraina, guerra israelo-palestinese e, non
ultima, la minaccia dell'ISIS verso il mondo occidentale. Le
incursioni di Boko Haram in Nigeria e negli Stati limitrofi sono
quasi del tutto scomparse dalla cronaca, l'estendersi incontrollato
del virus Ebola nell'Africa centro occidentale è “oscillante”
nei commenti dei media, forse meglio tacere per non creare eccessivi
allarmi... e ritorna prepotente il problema dell'informazione: quali
sono le fonti, ma soprattutto quali sono i “filtri” di queste
fonti?
Le risposte sono semplici e sotto gli
occhi di tutti: ciascuno di noi può essere una potenziale fonte, i
nostri cellulari tuttofare ci consentono di essere cronisti immediati
degli avvenimenti: girare video, scattare foto; registrare file audio
oramai è un gioco da ragazzi e postare tutto online in tempo reale è
già “automatizzato” nei dispositivi, ma dove vanno a finire
questi dati? Anche questa è una domanda ovvia: finiscono su Google,
Facebook, Twitter, Instagram e YouTube, per citare solo i più noti.
A questo punto però si pone una domanda assai spinosa sollevata da Ronan Farrow il 10 luglio scorso
sulle pagine del Washington Post: “Why aren't YouTube, Facebook and
Twitter doing more to stop terrorist from inciting violence?”
(Perché YouTube, Facebook e Twitter non fanno di più per fermare
l'incitamento alla violenza dei terroristi?)
Farrow, ex funzionario di Stato e
portavoce dell'UNICEF nonché editorialista per MSMBC, richiama alla
memoria le atrocità compiute in Ruanda circa vent'anni fa quando una
radio di quel Paese contribuì ad alimentare il reclutamento con
questo slogan: “Le tombe sono solo mezzo vuote, chi ci aiuterà a
riempirle?” La crisi, che si concluse nel 1994, fu definita il
“genocidio ruandese” e vide coinvolte per quattro anni le due
principali etnie del Paese: gli Hutu e i Tutsi.
Nella sua lettera al quotidiano, Farrow
pone l'accento sul fatto che, a differenza del 1990-94 ora gli
strumenti di comunicazione sono cambiati e quindi chiede una politica
diversa sul meccanismo di filtraggio delle informazioni in rete.
Volenti o nolenti, pro o contro, la
questione si sposta su un altro campo altrettanto delicato, quello
della censura e di chi, eventualmente, può esercitarla in nome di un
diritto collettivo alla sicurezza.
In un tweet lanciato questa settimanada, Dick Costolo, CEO dell'uccellino azzurro, fa sapere che verranno
sospesi tutti gli account legati in qualche modo alle immagini della
decapitazione di James Foley, il giornalista americano ucciso in
Siria da un militante dell'ISIS, ma in un articolo pubblicato su The Guardian il 21/08/2014 a firma di James Palla, si ricorda come
Twitter sia nato all'insegna del motto: “L'ala di libertà di
parola del partito della libertà di parola”
A parte questa contraddizione che
potrebbe essere giustificata dal forte impatto emotivo del filmato
(tra l'altro messo in discussione da alcuni, almeno per quanto
riguarda le modalità tecniche di acquisizione), rimane il fatto che
lo stesso è stato presentato in rete non solo da semplici utenti dei
social network, ma anche da prestigiose testate giornalistiche di
rilevanza mondiale. Saranno bannate anche queste dalla piattaforma
Twitter?
Entrano allora in gioco la libertà di
stampa e il diritto del cittadino ad essere informato.
Attualmente, in tutto il mondo,
Facebook ha circa 1,23 miliardi di utenti attivi, Twitter quasi
300.000.000 e YouTube, il canale di Google dedicato al video sharing,
ha recentemente dichiarato un fatturato mensile di 1 miliardo di
dollari, tutte attività, o meglio multinazionali dell'informazione,
che gestiscono fatturati astronomici nel quasi totale monopolio dell'informazione globale. Un potere enorme quindi, capace di
orientare i consumi non solo nel campo commerciale, ma anche, e
soprattutto, in quello sociale e di conseguenza politico.
E' un errore considerare tutti gli
utenti dei social come potenziali vittime di un reclutamento
psicologico verso uno schieramento o verso un altro, anche se alcuni
fatti suggeriscono una certa prudenza nel diffondere certe
informazioni senza valutarne le conseguenze, ma resta un fatto:
imporre una censura significa sentirsi autorizzati a stabilire il
sottile confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato
privando gli individui della libertà di scelta. Se questa censura è
odiosa quando è esercitata dai governi lo è ancora di più quando
sono le multinazionali ad applicarla
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